Codice Civile art. 433 - Persone obbligate (1).

Francesco Bartolini

Persone obbligate (1).

[I]. All'obbligo di prestare gli alimenti sono tenuti, nell'ordine:

1) il coniuge [129-bis, 156 3];

2) i figli, anche adottivi, e, in loro mancanza, i discendenti prossimi (2);

3) i genitori e, in loro mancanza, gli ascendenti prossimi; gli adottanti; (3);

4) i generi e le nuore;

5) il suocero e la suocera;

6) i fratelli e le sorelle germani o unilaterali, con precedenza dei germani sugli unilaterali [439].

(1) Articolo così sostituito dall'art. 168 l. 19 maggio 1975, n. 151.

(2) L'art. 64, d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154, ha sostituito il numero. Il testo recitava: «2) i figli legittimi o legittimati o naturali o adottivi, e, in loro mancanza, i discendenti prossimi, anche naturali;». Ai sensi dell’art. 108, d.lg. n. 154 del 2013, la modifica è entrata in vigore a partire dal 7 febbraio 2014.

(3) L'art. 64, d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154, ha sostituito il numero. Il testo recitava: «3) i genitori e, in loro mancanza, gli ascendenti prossimi, anche naturali; gli adottanti;». Ai sensi dell’art. 108, d.lg. n. 154 del 2013, la modifica è entrata in vigore a partire dal 7 febbraio 2014.

Inquadramento

L'obbligo degli alimenti risponde ad una esigenza solidaristica che le disposizioni del codice civile, artt. 433 ss., riferiscono all'ambiente familiare: nel quale i vincoli di sangue, di coabitazione e di relazione affettiva impongono ai soggetti il soccorso reciproco in condizioni di bisogno.  Proprio per la sussistenza di questa condizione l'obbligo di fornire gli alimenti si distingue dall'obbligo al mantenimento, avente ben maggiore contenuto.

Questo prescinde dallo stato di bisogno e sorge da situazioni inerenti ad un preciso status familiare, e delle condizioni soggettive che da questo status derivano è componente essenziale. Per quanto riguarda il rapporto genitori – figli, minorenni o non autosufficienti, non  occorre che un obbligo di assicurare il mantenimento venga  affermato con un provvedimento del giudice, che ne accerti i presupposti, per costituirlo. L'obbligo di mantenere i figli e di provvedere, in genere, alle necessità materiali della famiglia spetta ai genitori (o, reciprocamente, ai figli) in forza della loro stessa qualità, senza necessità che esso sia ribadito di volta in volta, salva la concreta necessità di determinarne il contenuto economico. Nei confronti del coniuge la solidarietà dovuta nei casi di scioglimento del rapporto comporta, anche in questo caso, non già uno stretto dovere alimentare bensì una prestazione economica che resta eventuale e dipende dalle concrete situazioni oggettive e soggettive in cui versano i coniugi.

L'obbligo di fornire gli alimenti si chiarisce attraverso l'ulteriore confronto con l'obbligo di mantenimento. Quello di versare gli alimenti ha per presupposto fondante lo stato di bisogno, vale a dire, la mancanza dei mezzi necessari per la vita quotidiana. Non ha importanza che questo stato sia imputabile alla condotta disordinata o colpevole del soggetto, rileva la condizione oggettiva che richiede un intervento di aiuto (Dogliotti, 460; Galgano). La limitazione ai mezzi necessari per la vita differenzia nel contenuto l'obbligo alimentare da quello di mantenimento, che è riferito, invece, alla partecipazione del beneficiario alle stesse condizioni di cui gode l'obbligato e comprende anche la cura non strettamente economica della persona e la sua assistenza morale e sociale (Vincenzi Amato, 897). Il mantenimento è un obbligo che discende dalla legge in considerazione della posizione rivestita dai soggetti; l'obbligo alimentare deve essere costituito su domanda dell'interessato e con un formale provvedimento del giudice.

L'elencazione dei soggetti obbligati è considerata comunemente tassativa, così come l'ordine nel quale essi sono chiamati ad assumere l'obbligo di prestare gli alimenti.

È controversa la natura del diritto agli alimenti. Le alternative sono di ritenerlo un vero e proprio diritto soggettivo, della personalità (Bianca, 480) oppure un diritto di credito, avente contenuto patrimoniale (Tamburrino, 460). Si sostiene anche che si tratti di un diritto potestativo, che sorge nel momento della proposizione della domanda (Vincenzi Amato, 924).

L'orientamento giurisprudenziale può essere esemplificato dalla seguente pronuncia di merito:  Gli alimenti hanno natura assistenziale e vengono attribuiti per fronteggiare una situazione eccezionale di difficoltà, di stato di bisogno della persona che non sia in grado di provvedere alle sue basilari esigenze di vita; il mantenimento, al contrario, è legato al concetto di “solidarietà familiare”. A tale distinzione ontologica consegue la diversità dei presupposti legittimanti il riconoscimento degli alimenti oppure del mantenimento in favore della prole: mentre il mantenimento presuppone la conservazione tendenziale del tenore di vita che il figlio avrebbe goduto in caso di mancata disgregazione della famiglia, gli alimenti invece presuppongono uno stato di totale assenza di mezzi di sostentamento, per cui la richiesta di un assegno alimentare costituisce un minus ricompreso nella più ampia domanda di riconoscimento dell'assegno di mantenimento e, per altro verso, la domanda di mantenimento non è necessariamente ricompresa in quella di attribuzione degli alimenti (Trib. Terni 15 febbraio 2023, n. 113). Per Cass. n. 557/1970, il diritto agli alimenti esula dall'ambito dei rapporti familiari e si sottrae, quindi, ai principi di ordine pubblico che investono la loro disciplina, così come alla limitazione di prove a detti rapporti inerente; rientrando nella sfera delle obbligazioni patrimoniali, il diritto è regolato dalla legge del luogo ove è avvenuto il fatto dal quale deriva l'obbligo degli alimenti.

La decisione, per quanto risalente, va ricordata poiché fornisce un dato importante per risolvere il quesito riguardante la forma del processo introdotto dalla domanda avente ad oggetto la richiesta di alimenti. Infatti, se si considera tuttora attuale la presa di posizione giurisprudenziale si giunge ad escludere l'applicazione del nuovo rito unico familiare di cui agli artt. 473-bis e segg. c.p.c. introdotto dalla c.d. riforma Cartabia. Tale rito è previsto per i procedimenti in genere relativi alle “famiglie” e, data l'ampiezza e la genericità di questa indicazione, anche le procedure giudiziarie verso il coniuge, i parenti e gli affini per averne un sostegno alimentare potrebbero rientrare tra quelle lato sensu familiari. La giurisprudenza tuttavia ha sempre tenuto distinte le obbligazioni di mantenimento da quelle alimentari ex art. 433 c.c. affermando la loro diversità ontologica nei presupposti e nelle finalità (Cass. I, n. 8417/2000; Cass. I, n. 1874/1919; Cass. I, n. 8567/1991; Cass. I, n. 2050/1988). Le prime, infatti, traggono la loro ratio dai doveri di solidarietà familiare; le altre sopperiscono invece allo stato di bisogno per difetto dei mezzi occorrenti alla propria sussistenza.

Le motivazioni argomentative in proposito hanno trovato occasione, per verità, da una questione diversa, relativa, più precisamente alla sospensione dei termini processuali. L'art. 92 del r.d. n. 12/1941 (cui rinvia l'art. 3 della l. 742/1969 sul periodo feriale) dispone che durante il periodo feriale dei magistrati sono trattate, senza sospensione e tra le altre, le cause civili relative agli alimenti. Proprio per la ritenuta differenza, la detta sospensione, estranea alle controversie in tema di alimenti, era pacificamente considerata applicabile alle controversie in materia di mantenimento tra coniugi e genitori-figli. La normativa emergenziale Covid (d.l. 18/2020 e successive modificazioni) equiparò, ai fini dell'eccezione alla sospensione feriale, le cause relative agli obblighi strettamente alimentari a quelle concernenti gli assegni di mantenimento: ne seguì l'affermazione secondo cui neppure nelle cause riguardanti il mantenimento del coniuge debole e dei minori era più applicabile la sospensione feriale dei termini processuali, con conseguente assimilazione delle procedure (Cass. I, n. 18044/2023). Il nuovo orientamento contraddiceva la pluridecennale giurisprudenza  precedente ma le Sezioni unite (sent. n. 12946/2024) riportarono i principi ad unità con il ribadire che la temporanea normativa dell'emergenza non aveva mutato i termini della questione: “Le cause relative ad alimenti, alle quali a norma dell'art. 92 ord. giud., richiamato dall'art. 3 della l. n. 742 del 1969, non è applicabile la sospensione feriale dei termini processuali, sono ontologicamente distinte dalle cause di separazione o di divorzio nelle quali si discuta dell'assegno di mantenimento o divorzile”.

Sembra dunque di poter concludere nel senso che la riaffermata diversità, per natura e funzioni, si ripercuota anche sulle forme delle rispettive controversie: da un lato, il rito familiare per le cause di assegno di mantenimento; il rito ordinario, dall'altro, per le cause di alimenti.

Il Ministero dell'interno, quale autorità intermediaria ai sensi della convenzione di New York del 20 giugno 1956 sul riconoscimento all'estero degli obblighi alimentari, quando agisce in giudizio in qualità di sostituto processuale del titolare del credito,ex art. 81 c.p.c., deve provare la sua «legitimatio ad causam» – intesa come prova della specifica investitura proveniente dal soggetto creditore – mediante la produzione in giudizio della richiesta presentata dal titolare del credito, allegando e provando l'identità dell'istante ed anche il conferimento dell'autorizzazione, ove eventualmente prescritta, non potendosi ritenere sufficiente a legittimare la proposizione della domanda giudiziale, la mera designazione del Ministero dell'Interno come organismo abilitato ad esercitare la funzione d'istituzione intermediaria, compiuta dallo Stato ai sensi dell'art. 2, par. 1 della Convenzione, dovendo il giudice del merito, in mancanza di tale prova, sollevare la questione d'ufficio (Cass. I, ord. n. 25854/2022: nella specie, la S.C. ha cassato la pronuncia del giudice d'appello che aveva ritenuto che l'onere di contestare specificamente l'assenza di una valida richiesta indirizzata al Ministero da parte dell'avente diritto incombesse al debitore e che la mancata contestazione in primo grado da parte sua, dovesse far ritenere la questione ormai incontestata). Il diritto agli alimenti sussiste anche se l'alimentando versa in stato di bisogno per propria colpa; la legge prevede soltanto che gli alimenti siano ridotti in caso di condotta disordinatamente colpevole dell'alimentando (Cass. n. 2066/1966).

L'obbligo a carico dei coniugi

Natura residuale

Il rapporto di coniugio obbliga reciprocamente all'assistenza morale e materiale (art. 143 c.c.). Marito e moglie acquistano gli stessi diritti e assumono gli stessi doveri. Il mantenimento costituisce l'aspetto minimo ed essenziale della convivenza e della condivisione della vita. Ne segue che la costituzione di un obbligo di alimenti non può riguardare che situazioni del tutto particolari, diverse da quella che rappresenta l'ordinarietà nella gestione del rapporto coniugale (Dogliotti, 469; Pacia, 494).

Cass. I, n. 3318/2017 ha affermato che il diritto agli alimenti previsto dall'art. 433 è legato alla prova dello stato di bisogno e dell'impossibilità da parte dell'alimentando di provvedere in tutto o in parte al proprio sostentamento mediante l'esplicazione di attività lavorativa; se questi è in grado di trovare un'occupazione confacente alle proprie attitudini ed alle proprie condizioni sociali, nulla può pretendere da altri. In tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare la nozione di “mezzi di sussistenza” la cui mancanza per il familiare integra il reato non coincide con la nozione civilistica degli “alimenti” e coincide con il vitto, l'alloggio, i medicinali, il vestiario e le spese per l'istruzione in caso di minore. Tribunale Benevento, 20 giugno 2018, n. 942.

Separazione personale

Il giudice che pronuncia la separazione stabilisce a favore del coniuge cui non sia addebitabile la separazione, il diritto di ricevere dall'altro quanto è necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia redditi propri (art. 156 c.c.). Resta fermo l'obbligo degli alimenti, di cui all'art. 433. Ciò vuol dire che il coniuge munito dei mezzi sufficienti è, quanto meno, tenuto a corrispondere gli alimenti necessari alla vita quotidiana, salvo il maggior obbligo del mantenimento, nella misura e alle condizioni stabilite dal giudice. E significa, inoltre, che anche nei confronti del coniuge separato con suo addebito sussiste l'obbligazione alimentare, dichiarata ferma dall'art. 156.

Il coniuge che godeva degli alimenti al momento dell'apertura della successione ha diritto ad avere un assegno vitalizio, sostitutivo, nel caso di morte di colui che ne faceva versamento (art. 548, comma 2, c.c.). In questo caso, però, l'assegno viene commisurato alle sostanze ereditarie, alla qualità e al numero degli eredi legittimi: non più e soltanto allo stato di bisogno (Tamburrino, 463).

Divorzio

L'art. 5, comma 6, l. n. 898/1970, sul divorzio, dispone che con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio il tribunale ordina l'obbligo per l'un coniuge di somministrare all'altro un assegno quando questi non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive. Tradizionalmente si è affermato che questo assegno tende a conservare al divorziato la condizione nella quale viveva durante il matrimonio; e, anzi, che esso deve seguire le vicende patrimoniali e di abbienza dell'obbligato nel senso di potersi rivalutare in corrispondenza delle sue aumentate disponibilità. Si esclude che questo assegno abbia natura alimentare, anche perché esso deve essere quantificato in ragione delle condizioni dei coniugi, dei motivi della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio comune o di entrambi, del reddito di entrambi nonché di una valutazione di tutti questi elementi in rapporto alla durata del matrimonio (Sala, 606; Bianca, 283).

L'art. 9-bis della legge citata prevede, però, l'attribuzione di un assegno periodico a carico dell'eredità e a favore di colui cui è stato riconosciuto il diritto alla corresponsione dell'assegno di divorzio, che versi in stato di bisogno, dopo il decesso dell'obbligato. In questo caso il giudice deve tener conto, oltre che delle sostanze ereditarie, del numero e della qualità degli eredi, anche dell'entità del bisogno. Per la dottrina, un vero e proprio obbligo alimentare, al di fuori di questo caso particolare, non sorge in tema di divorzio. L'ex coniuge abbiente non è destinatario di un obbligo in tal senso, e i primi soggetti ad assumerlo sono i figli dell'alimentando.

Con lo scioglimento del matrimonio, l'obbligazione alimentare sorge in primo luogo a carico del figlio dell'alimentando. Nel giudizio diretto ad ottenere l'adempimento, l'attore che si trova a godere di un assegno di divorzio assolve l'onere probatorio posto a suo carico dimostrando l'insufficienza dell'assegno divorzile e l'impossidenza di altri redditi di ammontare tale da affrancarlo dallo stato di bisogno. Incombe al convenuto provare, in via di eccezione, che il richiedente potrebbe agevolmente provvedere al proprio mantenimento, richiedendo una revisione dell'assegno di divorzio, previa allegazione e dimostrazione che le condizioni dell'ex coniuge sono tali da garantire all'alimentando il necessario, secondo la previsione dell'art. 438 c.c. (Cass. n. 7358/1994).

Cass. n. 1253/2012 ha affermato che l'assegno a carico dell'eredità, previsto dall'art. 9-bis l. n. 898/1970, va quantificato in relazione al complesso degli elementi espressamente indicati nello stesso art. 9-bis, cioè tenendo conto, oltre che della misura dell'assegno di divorzio, dell'entità del bisogno, dell'eventuale pensione di reversibilità, delle sostanze ereditarie, del numero e della qualità degli eredi e delle loro condizioni economiche. Ad un tal riguardo, ha aggiunto, l'entità del bisogno deve essere valutata non già con riferimento alle norme dettate da leggi speciali per finalità di ordine generale di sostegno dell'indigenza — le quali sono prive di ogni collegamento con ragioni di solidarietà familiare, che costituiscono, invece, il fondamento della norma in esame —, bensì in relazione al contesto socio — economico del richiedente e del de cuius, in analogia a quanto previsto dall'art. 438 c.c. in materia di alimenti.

Allontanamento dalla casa coniugale

I coniugi fissano, d'intesa, la residenza della famiglia; il rapporto di coniugio ha come elemento normale e dovuto la convivenza nella residenza familiare. L'art. 146 c.c. dispone, per questa ragione, che l'allontanamento, senza una giusta causa, dalla residenza familiare sospende il diritto all'assistenza morale e materiale previsto in genere dall'art. 143. È controverso in dottrina e in giurisprudenza che la sospensione comprenda anche l'obbligazione alimentare. Alle opinioni in tal senso (Tamburrino, 230) si oppone la diversa natura della «assistenza morale e materiale» e degli «alimenti» nonché la loro diversa funzione (Sala, 606). Si fa inoltre notare che la sospensione di cui all'art. 146 è disposta in relazione al rifiuto di ritornare nella residenza familiare e non già per il solo fatto dell'allontanamento, sì che essa dovrebbe operare, comunque, soltanto dal momento in cui l'allontanamento è divenuto definitivo (Vincenzi Amato, 939).

Un argomento a favore della tesi che sostiene la permanenza dell'obbligo alimentare, nonostante l'allontanamento, è desunto dalla disciplina della separazione con addebito, situazione che si afferma essere più grave in quanto caratterizzata da reiterate violazioni degli obblighi matrimoniali. In questa situazione è prevista la ricorrenza dell'obbligo in questione (Dogliotti, 473).

L'allontanamento dalla residenza familiare sospende anche l'obbligazione alimentare (Cass. n. 4842/1978). L'abbandono volontario e ingiustificato della convivenza da parte di un coniuge non esonera l'altro dal corrispondere i mezzi di sussistenza; tale obbligo permane finché il coniuge che ha diritto al sostentamento non sia legalmente separato per sua colpa con sentenza passata in giudicato (Cass. n. 2497/1976).

Coniuge dell'assente

L'art. 51 prevede la corresponsione di un assegno alimentare a favore del coniuge dell'assente. L'assegno è ulteriore, con riguardo a quanto spetti per effetto del regime patrimoniale coniugale e per titolo di successione; esso presuppone che il richiedente versi in stato di bisogno. Per parte della dottrina il diritto all'assegno ha natura alimentare e deve rivestire i requisiti di cui all'art. 433 (Tamburrino, 465; Pacia, 497). Per altri Autori si tratta di una pretesa autonoma, il cui accoglimento viene a limitare le rendite di chi è stato immesso nel possesso dei beni dell'assente (Dogliotti, 474).

La norma citata è di scarsa portata pratica. Infatti, se il patrimonio dell'assente è cospicuo, o i beni sono in regime di comunione con l'assente, non vi è necessità di un assegno alimentare. Ove, per contro, il patrimonio non abbia disponibilità, non esisteranno beni idonei a soddisfare lo stato di bisogno.

Matrimonio putativo

L'art. 129 c.c. contiene una norma finalizzata a porre rimedio a possibili situazioni di impossidenza che si verificano nel caso di matrimonio dichiarato nullo e per il quale si applicano le norme del matrimonio putativo. Se le condizioni di un matrimonio siffatto si verificano rispetto ad entrambi i coniugi, il giudice può disporre a carico di uno di essi, e per un periodo non superiore a tre anni, l'obbligo di corrispondere somme periodiche di denaro. Il presupposto del provvedimento è che il coniuge beneficiario non abbia adeguati redditi propri e non sia passato a nuove nozze; l'assegno va proporzionato alle sostanze possedute dall'obbligato. L'art. 129-bis aggiunge che, se la nullità del matrimonio è imputabile a uno dei coniugi o a un terzo, al coniuge in buona fede deve essere corrisposta da costoro una congrua indennità, anche in mancanza di prova di un danno sofferto; restando comunque fermo l'obbligo, per l'un coniuge, di versare gli alimenti al coniuge in buona fede.

L'indennità è tenuta formalmente distinta, nelle disposizioni citate, dall'obbligo alimentare, anche se ad essa si riconosce generalmente una natura alimentare, sia pure non strettamente riconducibile all'art. 433 c.c. L'indennità assume uno spiccato valore sanzionatorio per il coniuge in mala fede e per il terzo, solidalmente responsabile per il pagamento (Pacia, 496; Vincenzi Amato, 940; Dogliotti, 470).

Al fine dell'obbligazione indennitaria del coniuge cui sia imputabile la nullità del matrimonio, ai sensi dell'art. 129-bis c.c., il requisito della buona fede dell'altro coniuge, da presumersi fino a prova contraria, si identifica nella incolpevole ignoranza della specifica circostanza per la quale, nella concreta vicenda, è stata pronunciata la nullità (Cass. n. 1780/1996; Cass. n. 2734/1995; Cass. n. 8703/1990).

Convivenza

La convivenza, anche more uxorio, è stata sempre considerata quale situazione di fatto sfornita di rilevanza giuridica. In progressione di tempo ad essa è stata riconosciuta una sfera sempre maggiore  di effetti, sotto la pressione di un costume sociale in espansione e che chiedeva forme di riconoscimento. Si è consolidata l'opinione che anche la famiglia di fatto possa costituire un elemento importante nel tessuto della società e possa essere fonte di obblighi e di diritti meritevoli di essere tutelati e valorizzati. La mancanza di considerazione giuridica escludeva che dalla semplice convivenza potesse sorgere un obbligo di alimenti a favore del convivente che, una volta cessata la convivenza, si fosse venuto a trovare in stato di bisogno.

La l. n. 76/2016, disciplina attualmente le convivenze di fatto, definite quali convivenze tra persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da una unione civile. La convivenza è formalizzata con una dichiarazione anagrafica (art. 1, comma 37 l. cit.) e si regge su un contratto, redatto in forma scritta, con atto pubblico o con scrittura privata con sottoscrizione autenticata. Per il caso in cui cessi la convivenza, il giudice stabilisce il diritto del convivente di ricevere dall'altro convivente gli alimenti qualora versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento. Gli alimenti sono assegnati per un periodo proporzionale alla durata della convivenza e nella misura determinata ai sensi dell'art. 438, comma 2, c.c. L'ordine degli obbligati è stabilito dall'art. 433 e l'obbligo del convivente va adempiuto con precedenza sui fratelli e sulle sorelle. Il richiamo esplicito alle norme del codice civile in tema di obbligazione alimentare indica in modo palese la voluta intenzione del legislatore di ricondurre l'obbligo a carico del convivente ad una unica figura giuridica, di soccorso per lo stato di insufficienza di mezzi, comune a quella propria del matrimonio.

Per Trib. Milano 23 gennaio 2017 (in Guida al dir., 2017, 19, 56, nota) una pretesa alimentare del convivente more uxorio nei confronti dell'altro, a norma dell'art. 1, comma 65, l. n. 76/2016, è possibile solo per le convivenze che siano cessate successivamente al 5 giugno 2016, data di entrata in vigore della legge: è inammissibile, pertanto, una domanda di alimenti proposta con riguardo a una convivenza cessata anteriormente. Si aggiunge, nella stessa decisione, che la controversia è regolata dalle norme di diritto sostanziale di cui agli artt. 433 ss. c.c. e dalle norme processuali di cui agli artt. 163 ss. c.p.c. È competente il giudice ordinario in composizione monocratica, senza intervento del P.M., e l'azione va esercitata con atto di citazione.  In mancanza di un “contratto di convivenza”, il convivente more uxorio economicamente debole – qualora versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento successivamente al venir meno della relazione di fatto – ha il solo diritto di ricevere gli alimenti secondo i medesimi presupposti e disciplina previsti dall'istituto di matrice codicistica ex art. 433 c.c. (Trib. Palermo, 14 aprile 2020, n. 1271). Presupposti del diritto a ricevere gli alimenti da parte dell'ex convivente, secondo i principi generali che regolano la materia, sono lo stato di bisogno del richiedente, l'impossibilità del richiedente di provvedere al proprio mantenimento e il rispetto dell'ordine fissato dall'art. 433 c.c. nella scelta del soggetto cui si richiede la prestazione alimentare ovvero la prova, in caso di mancato rispetto dell'ordine degli obbligati, che l'obbligato precedente non si trovi nella condizione di poter soddisfare l'obbligo alimentare (Trib. Milano, IX, 12 luglio 2019, che ha disatteso l'istanza proposta dall'ex convivente in età giovanile, priva di problemi di salute, con buone prospettive professionali e già inserita nel mondo del lavoro).

Unioni civili

La l. n. 76/2016, disciplina le unioni civili tra persone dello stesso sesso. Essa indica in dettaglio i diritti e i doveri che sorgono dalla relazione di unione, modellata sul matrimonio tra persone di sesso differente. L'art. 1, comma 10, in particolare, dispone che con la costituzione dell'unione civile le parti acquistano gli stessi diritti e assumono gli stessi doveri; che dall'unione civile deriva l'obbligo reciproco dell'assistenza morale e materiale; e che entrambe le parti sono tenute, ciascuna in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo, a contribuire ai bisogni comuni. In questo contesto normativo, la legge citata richiama alcuni istituti relativi al rapporto matrimoniale aventi funzione solidaristica e di soccorso alimentare.

Il comma 13 dell'art. 1 della legge in argomento richiama, in quanto applicabili, tra le altre, le norme del codice civile dettate nella sezione VI (della nullità del matrimonio) che comprende gli artt. 129 e 129-bis c.c., sulle conseguenze della nullità del matrimonio putativo. Ne segue che al convivente in buona fede sono dovute le indennità previste nelle disposizioni richiamate. Il comma 20 della medesima legge richiama, infine, l'art. 146 c.c., che è dichiarato espressamente applicabile alle unioni civili. Pertanto, nel caso di allontanamento dalla residenza comunemente scelta dalla coppia, per il convivente che rifiuta di ritornarvi è sospeso il diritto all'assistenza morale e materiale. Ne risulta una disciplina che riconosce forme specifiche di diritto a prestazioni alimentari: oltre le quali non sembra si possa procedere. Infatti, il comma 20 citato prevede che le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni che contengono la parola «coniuge» si applichino a ciascuna delle parti dell'unione civile. Ma aggiunge che questa regola non si applica alle norme del codice civile non richiamate espressamente dalla l. n. 76/2016. L'obbligo alimentare dunque vige nei ristretti limiti in cui esso è espressamente riconosciuto dalla legge suddetta.

Figli e discendenti

I figli devono contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia, finché convivono con essa (art. 315-bis c.c.). Il dovere suddetto trova ragione nella partecipazione al nucleo familiare e negli obblighi di mutua solidarietà finalizzati a conservare un interesse comune. Si tratta di un dovere più ampio di quello di fornire soltanto mezzi alimentari ai familiari e che è funzionale a rendere possibile e coesa la convivenza. Un vero e proprio obbligo alimentare può dunque sorgere soltanto quando la convivenza viene a cessare in ragione del vero e proprio stato di bisogno di alcuno degli ascendenti.

La normativa preesistente alla l. n. 219/2012, poneva differenziazioni di disciplina a proposito dei figli naturali. Esse sono cadute con la parificazione di status tra tutti i figli, nati oppur no nel matrimonio, disposta da tale provvedimento. Si applica, in ogni caso, l'art. 258 c.c., per il quale il riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio produce effetti riguardo al genitore da cui è effettuato e riguardo ai parenti di esso. La detta equiparazione ha risolto le questioni concernenti la possibile sussistenza di un obbligo alimentare a carico dei figli non riconoscibili.

  Nell'ambito dei rapporti tra genitori e figli vi sono naturali diritti/doveri di reciproca assistenza e vicinanza fra cui quello economico di mantenimento. E' dubbio quindi che l'avere assistito un genitore in difficoltà per ragioni di età e di salute assurga ad un rango così elevato da costituire fonte di un'obbligazione naturale e non, al contrario, costituisca normale espressione di quel naturale e gratuito affetto verso i propri cari. L'interrogativo si impone poiché l'attribuzione economica, secondo le circostanze concrete e i rapporti tra le parti, può declinare verso la mera riconoscenza, qualificando la prestazione come liberalità remuneratoria, laddove non vi sia l'esigenza di andare a soddisfare uno specifico dovere morale o sociale ma semplicemente manifestare il proprio apprezzamento o gratitudine (Trib. Torino, II, 20 gennaio 2021, n. 278).

Figli adottivi

L'art. 27 l. n. 184/1983 dispone che, per effetto dell'adozione di un minore, l'adottato acquista lo stato di figlio nato nel matrimonio degli adottanti; con l'adozione cessano i rapporti con la famiglia di origine (salvi i divieti matrimoniali). I figli adottivi sono dunque tenuti all'obbligo alimentare nei confronti degli adottanti, al pari dei figli biologici (Dogliotti, 475).

Per l'adozione di maggiorenni l'art. 436 c.c. dispone che l'adottante deve gli alimenti al figlio adottivo con precedenza sui genitori legittimi o naturali di lui. Questa adozione non interrompe i rapporti con la famiglia di origine e crea un rapporto immediato soltanto tra adottante e adottato: l'art. 300 c.c. precisa che l'adozione non produce alcun rapporto civile tra l'adottante e la famiglia dell'adottato né tra l'adottato e i parenti dell'adottante, salve le eccezioni stabilite dalla legge (si veda il commento sub art. 436). Rimane estranea a questa disciplina la situazione che riguarda la relazione che viene a formarsi tra l'adottante e i discendenti dell'adottato: e la dottrina si è posta il quesito di stabilire se tra tali soggetti sussista un obbligo alimentare, reciproco. I pareri sono discordi. Si vedano Figone, Gli alimenti, 247; Pacia, 499, per l'opinione contraria alla ricorrenza di questo obbligo; Dogliotti, 478, per la tesi opposta.

Genitori e ascendenti prossimi

I genitori hanno un naturale e ovvio obbligo di mantenimento nei confronti dei figli, quale forma ordinaria e minima della cura ad essi dovuta. Un obbligo autonomo di alimenti, nel senso di cui all'art. 433 c.c., può porsi dunque soltanto quando l'obbligo di mantenimento è cessato, e subentrano situazioni in cui l'autonomia raggiunta dal figlio non impedisce che questi versi in situazione di bisogno. La normativa dettata dal codice civile affronta questa fattispecie sotto aspetti diversi e che esigono un coordinamento.

L'art. 316-bis c.c. pone il principio del concorso nel mantenimento, quale dovere che nasce automaticamente dal matrimonio (art. 147) e prosegue pur dopo la separazione personale e il divorzio (art. 337-bis ss.). Se i genitori non hanno mezzi sufficienti, gli altri ascendenti, in ordine di prossimità, sono tenuti a fornire ai genitori stessi i mezzi necessari affinché possano adempiere i loro doveri nei confronti dei figli. Nell'ambito dell'adempimento dell'obbligo di mantenimento, pertanto, una forma di solidarietà è posta a carico degli ascendenti. Costoro sono tenuti non già a mantenere direttamente i discendenti ma a coadiuvare i soggetti direttamente obbligati con il fornire loro le disponibilità necessarie. La situazione che comporta un obbligo di alimenti, riconducibile al cit. art. 433, è diversa e si fonda sul presupposto dell'inesistenza attuale di un obbligo di mantenimento e della ricorrenza dello stato di bisogno.

La giurisprudenza afferma che il dovere di mantenere i figli cessa quando essi raggiungono l'indipendenza economica, a prescindere dal compimento della maggiore età, oppure quando la mancata autonomia dipende da un atteggiamento di inerzia o di rifiuto ingiustificato del figlio a terminare gli studi e a reperire una occupazione. In queste situazioni, ormai non più dovuto il mero mantenimento, può aprirsi uno spazio per l'applicazione delle norme sull'obbligazione alimentare. 

Una fattispecie particolare riguarda il figlio nato fuori dal matrimonio. L’art. 279, primo comma, c.c. dispone che il figlio nato fuori dal matrimonio, se maggiorenne e in stato di bisogno, può agire per ottenere gli alimenti a condizione che il diritto al mantenimento di cui all’art. 315-bis sia venuto meno.

Nel procedimento di revisione delle condizioni dell'assegno di mantenimento in favore del figlio maggiorenne, promosso dal genitore divorziato per ottenere l'esonero dal relativo obbligo, la richiesta di alimenti da parte del figlio costituisce un minus necessariamente ricompreso in quella, dal medesimo avanzata in via riconvenzionale, di aumento dell'importo dell'assegno di mantenimento, con la conseguenza che essa non costituisce domanda nuova, vietata in sede di reclamo (Cass. n. 15437/2021; Cass. n. 1761/2008). L'obbligo dei genitori di concorrere al mantenimento del figlio non cessa con il raggiungimento della maggiore età di questi ma perdura, immutato, finché il genitore interessato dia la prova che il figlio ha raggiunto l'indipendenza economica ovvero che il mancato svolgimento di una attività economica dipende da un atteggiamento di inerzia o di rifiuto dello stesso (Cass. n. 24424/2013; Cass. n. 1830/2011; Cass. n. 14123/2011). L'obbligo di mantenimento dei figli minori spetta primariamente e integralmente ai loro genitori, sicché, se uno dei due non possa o non voglia adempiere al proprio dovere, l'altro, nel preminente interesse dei figli, deve far fronte per intero alle loro esigenze con tutte le sue sostanze patrimoniali e sfruttando tutta la propria capacità di lavoro, salva la possibilità di convenire in giudizio l'inadempiente per ottenere un contributo proporzionale alle condizioni economiche globali di costui. Cass. n. 20509/2010 ha desunto da questa premessa l'affermazione secondo cui l'obbligo degli ascendenti di fornire ai genitori i mezzi necessari, affinché possano adempiere i loro doveri nei confronti dei figli, va inteso non solo nel senso che l'obbligazione degli ascendenti è subordinata e, quindi, sussidiaria rispetto a quella, primaria, dei genitori ma anche nel senso che agli ascendenti non ci si possa rivolgere per un aiuto economico per il solo fatto che uno dei due genitori non dia il proprio contributo al mantenimento dei figli, se l'altro genitore è in grado di mantenerli; così come il diritto agli alimenti ex art. 433, legato alla prova dello stato di bisogno e dell'impossibilità di reperire attività lavorativa, sorge solo qualora i genitori non siano in grado di adempiere al loro diretto e personale obbligo. Nello stesso senso: Cass. I, ord. n. 10419/2018.

L'obbligo degli ascendenti di fornire ai genitori i mezzi necessari affinché possano adempiere i loro doveri nei confronti dei figli — che investe contemporaneamente tutti gli ascendenti di pari grado di entrambi i genitori — va inteso non solo nel senso che l'obbligo degli ascendenti è subordinato e, quindi, sussidiario rispetto a quello, primario, dei genitori, ma anche nel senso che agli ascendenti non ci si possa rivolgere per un adeguato aiuto economico per il solo fatto che uno dei genitori non dia il proprio contributo al mantenimento dei figli, se l'altro genitore è in grado di mantenerli (Trib. Rieti, 20 novembre 2012, in Dir. fam. 2013, 2, 578, con nota di Ludovici).

I parenti collaterali non possono essere condannati a fornire ai genitori privi di mezzi per il mantenimento dei figli quanto necessario a far loro adempiere l'obbligo di mantenimento, atteso che l'art. 148 c.c. (in allora applicabile e oggi art. 316-bis) fa riferimento esclusivo agli ascendenti e, quindi, ai soli parenti in linea retta (Cass. n. 23978/2015, con riferimento a zie paterne).

Genero e nuora. Suocero e suocera

Nell'ordine tassativo di cui all'art. 433 c.c., in assenza di coniuge, figli o discendenti, genitori o ascendenti, l'obbligo alimentare si costituisce in capo agli affini. In primo luogo subentrano il genero e la nuora, poi il suocero e la suocera. La dottrina aveva inteso la disposizione che così prevede come esclusiva dell'obbligo all'interno della famiglia naturale, che non crea rapporti di parentela e che non è prevista nell'elencazione tassativa di cui alla norma citata (Tamburrino, 468; Dogliotti, 482). L'equiparazione dei figli, quanto al loro status, ha privato di rilevanza la questione.

Si veda sub art. 434 per la cessazione dell'obbligo alimentare tra affini.

L'obbligo dei nonni di contribuire al mantenimento dei nipoti scatta solo se i genitori dimostrano di non essere in grado di provvedere né di incrementare il loro reddito. Di conseguenza, la nuora non può chiedere alla suocera gli alimenti per i nipoti perché l'ex marito è inadempiente. Ad affermarlo è la Cassazione per la quale l'obbligo di mantenere i figli minori spetta prima di tutto ai genitori, con la conseguenza che se uno dei due non vuole adempiere il suo dovere, l'altro è tenuto a far fronte per intero alle loro esigenze, fermo restando la possibilità di citare in giudizio il genitore inadempiente per ottenere un contributo calibrato sulle sue possibilità (Cass. VI, n. 10419/2018).

Fratelli e sorelle

I fratelli e le sorelle assumono, anch'essi, l'obbligo di alimenti, in mancanza di soggetti che li precedono nell'elenco dettato dall'art. 433 c.c. I germani sono preferiti agli unilaterali, in base ad una presunzione che ravvisa tra essi maggiori vincoli anche affettivi e relazionali. L'equiparazione tra figli legittimi e figli naturali ha tolto materia di dubbio al quesito riguardante l'applicazione della norma citata anche ai fratelli naturali (Vincenzi Amato, 972).

In tema di misura di alimenti tra fratello e sorella, ai fini della determinazione dell'assegno, occorre avere riguardo ai mutamenti delle condizioni delle parti verificatesi in corso di causa come l'attribuzione di un trattamento pensionistico nonché della percezione di altre somme. E' quindi necessario verificare se le citate sopravvenienze, per la loro entità, consentano di provvedere alle esigenze primarie, atteso che, trattandosi di fratelli, la corresponsione degli alimenti deve essere limitata allo stretto necessario (Cass. n.1577/2019).  

Stato di bisogno e sostentamento ad opera del terzo

Il diritto agli alimenti è un diritto che la dottrina ritiene personalissimo e quindi esercitabile soltanto dal titolare (Bianca, 487). Segue da questa impostazione che non è ammissibile l'esercizio di una azione surrogatoria come pure una azione di rivalsa dell'ente di assistenza verso gli obbligati agli alimenti, nel caso di prestazione di cure mediche e di ricovero dell'avente diritto. La giurisprudenza, contro la prevalente dottrina, ritiene ancora vigente l'art. 1 l. n. 1580/1931 (Nuove norme per la rivalsa delle spese di spedalità e manicomiali), che rinviava al codice civile in allora vigente per l'individuazione dei soggetti nei confronti dei quali esercitare la rivalsa. Questa, dunque, può essere rivolta contro tutti i soggetti indicati dall'art. 433 come tenuti all'obbligo alimentare. L'azione, si afferma, trova fondamento nell'indebito arricchimento di coloro che, tenuti agli alimenti, non li hanno corrisposti.

L'art. 1 l. n. 1580/1931, che consente la rivalsa dell'ente assistenziale verso gli inadempienti all'obbligo di alimenti, è tuttora vigente (Corte cost. n. 349/1989). Per la Consulta, la norma citata, che prevede il diritto di rivalsa degli istituti di ricovero e cura per spese di spedalità, individua gli obbligati alla rivalsa mediante rinvio all'art. 142 c.c. abrogato che poneva gli alimenti a carico di soggetti tutti identificabili come congiunti del degente; pertanto, tale obbligo di rivalsa, in base agli artt. 433, 437 e 438 c.c. attualmente vigenti, può essere ora esercitato nei confronti di tutti coloro che sono tenuti agli alimenti, compresi i donatari. L'azione può essere esercitata anche contro uno solo dei soggetti potenzialmente obbligati, ovvero contro alcuni soltanto di essi, quando le condizioni economiche degli altri, ancorché tenuti agli alimenti in via prioritaria, non consentano in tutto o in parte la rivalsa (Cass. n. 3822/2001; Cass. n. 481/1998). La rivalsa ha il suo fondamento nell'arricchimento indebito conseguito da chi ha omesso di versare gli alimenti (Cass. n. 4621/1999).

Il credito alimentare, di natura personale, non può essere oggetto di azione surrogatoria da parte dei creditori dell'avente diritto (artt. 438 e 2900 c.c.), il quale non può disporre del proprio credito che, difatti, non può essere ceduto né fatto oggetto di compensazione, ex art. 447 c.c.; del resto, il credito alimentare neppure si estingue per prescrizione, atteso che l'art. 2948, n. 2, c.c. prevede la prescrizione quinquennale solo per le annualità scadute (TAR Lombardia Milano, III, n. 2242/2013, per il quale proprio in coerenza con la generale preclusione dell'azione surrogatoria l'art. 2, comma 6, d.lgs. n. 109/1998 esclude che gli enti erogatori possano sostituirsi al richiedente la prestazione sociale agevolata azionando il credito alimentare verso i componenti del nucleo familiare).

Bibliografia

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